Don Pollarolo: la storia del fondatore di casa Ozanam

Daniele Passarella

Vorrei fare una premessa, il racconto che seguirà non ha nessuna intenzione politica né critica. Quello che vogliamo fare è raccontare una storia interessante che si ripercuote ancora oggi nel nostro quartiere.

Quella che mi appresto a raccontarti è la storia di Don Pollarolo. Prete operaio, cineasta sul fronte partigiano, prete costruttore della prima chiesa delle Vallette e fondatore di casa Ozanam.

Don Giuseppe Pollarolo nasce in un piccolo paesino in provincia di Alessandria, il 31 agosto 1907. Le difficili condizioni economiche della famiglia forgiano il suo carattere sin da ragazzo. Improntato al lavoro duro e alla concretezza si distingue dagli altri coetanei per la sua ottima dialettica. Dopo aver ricevuto la vocazione, decide di frequentare il corso di Teologia a Roma dove nel mentre si occupa di assistere ed insegnare ai bambini orfani. 

Ultimati gli studi, nel 1930, diventa sacerdote e divide la sua attività clericale tra il Piemonte e la Lombardia, sono anni per lui tutto sommato tranquilli, anni di formazione in cui spicca per l’ottima capacità di predicazione.

Trascorrono dieci anni, l’Italia è sotto la dittatura fascista già da diciotto anni. Scocca <<l’ora delle decisioni irrevocabili>> l’Italia entra nella seconda guerra mondiale dichiarando guerra a Francia ed Inghilterra.

Una guerra che non siamo in grado di sostenere e che nell’idea di Mussolini è tanto breve quanto necessaria per poter avanzare pretese di terre una volta che la Germania trionferà. Guerra che non farà altro che mettere in ginocchio una popolazione già allo stremo, con mancanza di cibo e beni primari.

É in questo clima che il cardinale di Torino sceglie Pollarolo come sacerdote per la pastorale operaia della città. Ritiene infatti possa essere la figura sociale perfetta in quanto fortemente propenso ed empatico nei confronti della popolazione in difficoltà, e infatti diventa subito stimato e ben voluto dalla comunità, proprio per la concretezza del suo sostegno. Questo perché chi ha conosciuto la miseria sa come approcciarsi a chi è in difficoltà, conosce la sua lingua, le sue preoccupazioni, le sue priorità.

Trascorrono tre lunghissimi anni, dilaniati dalla guerra. É il 10 luglio del 1943, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sbarcano in terra siciliana. È l’inizio della fine. La guerra sta volgendo al termine. 

Due mesi dopo, infatti, l’Italia annuncia l’armistizio. Torino, così come il resto del paese, diventa teatro di rappresaglie, scontri ed bombardamenti tra le forze tedesche e quelle degli alleati.

L’occupazione rende ancora più difficoltosa la vita civile, i trasporti e le comunicazioni sono limitate se non bloccate, mancano i beni primari. 

È in questo clima che don Pollarolo matura la scelta, avvallata dall’arcivescovo, che al contrario del sacerdote non poteva esporsi, di seguire spiritualmente e condividere la vita con i gruppi partigiani

«Mi presentai all’Arcivescovo e gli manifestai i miei propositi. Si fece serio, mi chiese se fossi consapevole di una simile presa di posizione, gli risposi che non solo ero consapevole, ma anche pronto a subirle e che per me non c’era altra alternativa che quella di andare a fare, tra gli uomini della Resistenza, quello che facevo tra gli operai delle fabbriche. Un largo sorriso illuminò il volto dell’Arcivescovo nell’apprendere la mia disponibilità per quell’apostolato, mi approvò e mi benedisse» 

Così nel settembre del 43’ don Pollarolo si allontana da Torino per raggiungere le montagne cuneesi e diventare il prete dei partigiani. Si unisce al gruppo capitanato da Duccio Galimberti (una delle figure più importanti della resistenza piemontese, famoso è il filmato “Momenti di vita e lotta partigiana”), e non si tira mai indietro, sempre pronto a diffondere messaggi di coraggio e di unione per il gruppo. Mai armato se non di dialettica.

In mano, infatti, alterna il suo breviario di preghiere ad una piccola cinepresa Pathè-baby tascabile in formato 9,5 cm che utilizza per fare dei veri e propri film sulla resistenza partigiana. Filmati che rappresentano una testimonianza fondamentale per la storia di oggi e che ispirarono il cinema militante e della memoria di un regista come Gobetti. 

Il prete filma momenti di svago, discorsi motivazionali, riunioni ma anche i conflitti contro l’esercito tedesco. Imprime frammenti di vita nella pellicola; il sollievo e la gioia di rimanere immortalati per sempre, disponibili al futuro e al ricordo della famiglia. Drammi, sorrisi cancellati da una guerra spietata, da un fronte all’altro.

<<Io me la sviluppavo su in montagna la pellicola, non potevo mandarla a sviluppare in città, vero? Erano quattro cassette come questa, una tavola di bachelite intorno alla quale si avvolgevano i nove metri e poi si sviluppava, con dei successi che portavano all’entusiasmo i giovani, perché nel giro di un’ora, quando il tempo era asciutto, riuscivamo a vederci la scena girata»

Don Pollarolo, era un principiante tuttavia possedeva un gusto innato per l’inquadratura cinematografica e per la capacità immediata di racconto per immagini. Le sue brevi sequenze hanno un sapore di autenticità e un fascino visivo unico nel suo genere anche se un po’ ingenue.

Un esempio è “Campane a stormo” girato tra i partigiani proprio per diletto. La trama è costruita attorno a una rivalità tra ragazze che rischia di precipitare in tragedia, con delazioni e arresti, ma è chiaramente un pretesto. Le immagini con cui si sviluppa il racconto costruiscono un ritratto della vita partigiana convincente, in cui si avverte una profonda partecipazione.

Aggregare. Fare comunità, unire le persone con le parole, i gesti, i sorrisi era la sua più grande qualità. 

Ben presto diventa conosciuto anche tra le fila nemiche, la sua fama cresce a tal punto che i tedeschi mettono una taglia sulla sua testa, vogliono a tutti i costi il prete partigiano. 

Dopo vari tentativi riescono a catturarlo. Lo fanno inginocchiare e gli puntano la canna della pistola alla testa. Pronti a fucilarlo. Nessun processo, in guerra si fa anche così.

Sicuro della sua dipartita si raccoglie in preghiera. Salta. Un grosso boato, proprio vicino a lui. Che abbiano sbagliato mira? Lo stanno forse deridendo? Apre gli occhi, si guarda intorno. Al suo fianco una grossa buca fumante, il plotone d’esecuzione si è disperso.

Senza parole scavalca il muretto e dall’altra parte ritrova il suo gruppo di partigiani ad abbracciarlo, il loro ultimo disperato tentativo di salvarlo era andato a buon fino. Il loro compagno è salvo.

Finisce la guerra, l’Italia è libera. È il 29 aprile del 1945. Don Pollarolo entra nel prefetto di Milano visibilmente scosso. Arrabbiato. Qualche ora prima era intervenuto a piazzale Loreto coprendo il corpo denudato di Claretta Petacci e ammonendo i presenti in un silenzio surreale.

Qui ottiene che i cadaveri di Mussolini e della Petacci siano tolti dal ludibrio a cui furono esposti e fossero trasportati all’Istituto di Medicina Legale. 

Saluta la vita partigiana e i suoi compagni di Resistenza in un lungo e commosso messaggio a “Radio Milano Libera”. 

<< Il Cappellano che ha sentito sulla nuca il freddo della rivoltella tedesca ed ha avuto dinanzi il plotone di esecuzione si raccomanda al popolo perché non compia vendette private, né si abbandoni a furori scomposti degni di ogni riprovazione>>

Conclusa la guerra è tempo di ricostruire, l’Italia inizia lentamente la sua ripresa. Fiumane di operai giungono dal sud per ripopolare e riconvertire le fabbriche utilizzate nella produzione di armamenti fino a qualche anno prima.

Migliaia di operai si ritrovano senza un tetto sotto cui poter riposare dopo intense giornate di lavoro. Torino non è pronta ma anche questa volta, grazie alla sua indole pratica e generosa, se ne occupa Don Pollarolo fondando la prima “casa del giovane operaio” in corso Principe Oddone.

Siamo nel 1959.

Anno in cui si diffonde una simpatica storia sul suo conto, che ben aiuta a cogliere il punto di vista dell’epoca. “Davanti a quei giovani immigrati che non avevano dove alloggiare e vivevano quasi da ‘barboni’. Passava il sindaco e preoccupato diceva: “occorre subito una riunione municipale per risolvere il problema”. Arrivava poi il cardinale e diceva: “Non si può lasciare questa gente così, farò una lettera pastorale”. Passava infine Don Pollarolo e diceva: “Bravi, venite con me, che un piatto caldo e un letto per dormire lo troveremo!”.

Da Via Principe Oddone l’accoglienza si estende alla “Benefica” in Via Susa e nella nostra casa Ozanam, in via Foligno, di cui abbiamo già raccontato le vicissitudini. 

Sempre pronto ad accogliere con grande paternità e bontà i suoi ospiti Pollarolo diventa intransigente sulle regole cercando di inculcare in loro l’idea dell’aiuto reciproco, pretendendo che una volta trovato un lavoro stabile e un posto dove dormire lasciassero il posto a persone più bisognose.

Per offrire loro cibo si spinse addirittura ad allevare maiali e galline ricevendo le ore degli abitanti per il cattivo odore. 

A Pollarolo però non basta ospitare persone in difficoltà, vuole diventare il collante tra immigrati e abitanti del quartiere promuovendo eventi culturali e di confronto.

Negli anni 60′ quando il Comune di Torino ultima la costruzione del quartiere Vallette su progetto dell’architetto ingegnere Gino-Levi Montalcini, c’è di nuovo bisogno di un parroco che sappia agire in un ambiente difficile, segnato dalla povertà e dalla criminalità.

A cogliere la chiamata è proprio Don Pollarolo che dà inizio alla costruzione della prima chiesa parrocchiale diventando parroco-costruttore: alternando le ore di lavoro fisico, coi muratori, a quelle dell’apostolato sacerdotale. 

Anche in quello che diventerà il suo quartiere e a cui intesteranno, dopo la sua morte, persino una piazza, fece costruire in Viale dei Mughetti, una “Casa del giovane operaio” per dare un tetto al più gran numero possibile di giovani. 

<< Era difficile parlare alla gente delle Vallette, bisognava conoscere mille dialetti, saper tradurre i gesti in concetti, ma soprattutto avere confidenza con la sofferenza di chi arriva dalla miseria più profonda>>.

Una delle sue ultime attività fu quella di promuovere l’Università Popolare  uno strumento necessario formare culturalmente i giovani e meno giovani della classe operaia. Ripeteva sempre << Non invidiate ai ricchi i loro soldi, ma la cultura che possono permettersi: ora che siete adulti studiate, non tanto per migliorare la vostra carriera ma per arricchire il vostro spirito>>

Muore nel 1987 un uomo estremamente coraggioso ed altruista. La persona che ha calcato i luoghi in cui ora noi lavoriamo. Un uomo pieno di idee, iniziative, passioni. 

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