Casa Ozanam, la sua storia tra presente e passato

Daniele Passarella

Questa è una storia di foto in bianco e nero, di parole impresse nel nero nella carta stampata e di bianco a caratteri cubitali sui muri, in segno di protesta. 

Questa è una storia che parla di noi, del nostro quartiere, di immigrati respinti, di contrasti e poi di unione. Parla di un prete che si definiva operaio e che ha passato la vita aiutando le persone in difficoltà.

Parla di un luogo, delimitato da un grosso cancello in ferro, sopravvissuto al tempo. Divenuto prima barriera tra gli ospiti delll’ex fonderia ed il quartiere e che poi è diventato il simbolo di qualcosa che sta cambiando.

È la storia di casa Ozanam.

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Procediamo in ordine cronologico, riavvolgiamo il nastro, proprio come farebbe un investigatore alla ricerca di prove, di frammenti di storia che aiutano a vedere chiaro il quadro del presente. 

È il 1938 quando a Nicolaj Diulgheroff, architetto e artista bulgaro di stampo futurista, viene affidato il compito di accorpare una serie di edifici industriali in un unico blocco per l’industria metallurgica Simbi. Sceglie un progetto di stampo tardo razionalista che si ispira nella forma ad una macchina nave e nasce un edificio unico nel suo genere. 

A riempire le mura di via Foligno sino agli anni 60′ sono rumori di martelli elettrici, di stampati, fucinati e leghe leggere. Tintinnii, boati, calore asfissiante, sudore. 

Siamo alla fine degli anni 60’, in pieno boom economico. Torino si è evoluta, è una città con una forte impronta industriale e come in tutte le città in via di sviluppo c’è un ampio divario fra ricchi e poveri.

Migliaia di famiglie dal meridione si trasferiscono a Torino ma non ci sono letti per dormire. Le case non sempre si trovano e non tutti i torinesi accettano l’immigrazione che viene vista quasi come un’invasione. Sui portoni di alcuni condomini compaiono cartelli con la scritta “non si affitta ai meridionali”.

È sabato 25 ottobre 1969. Il quotidiano La stampa titola in un piccolo trafiletto a fondo pagina “Settecento posti di emergenza per ospitare operai immigrati”. La situazione è grave. Si calcola infatti che dal 1° gennaio al 30 settembre a Torino siano arrivate circa 43 mila persone provenienti dal meridione e nel solo mese di ottobre 7000.

L’inverno sta arrivando, il freddo inizia a bussare alle porte dei torinesi e bisogna trovare una soluzione dignitosa in fretta.

Molti immigrati sono padri di famiglia che vengono al nord in cerca di lavoro, per poter mantenere famiglie spesso numerose. Così il comune decide di iniziare i lavori nell’ex fonderia Simbi, ne diminuisce la metratura per aumentarne i servizi.

Ora ci sono 200 posti disponibili.

Trascorrono tre mesi, è il 19 gennaio del 1970 quando la stampa riaccende l’attenzione su casa Ozanam. Ad essere intervistato è don Pollarolo, il prete che ha colto la missione di accogliere i meridionali all’arrivo in città offrendo loro una stanza a poco prezzo. È il frate più contestato di Torino. Mal visto da ambo le parti della città, c’è infatti chi dice se ne approfitti e guadagni facendo l’affittacamere e chi invece non vede di buon occhio il suo aiuto agli immigrati. Ma questa è gente disperata. Arrivano con il treno del sole e corrono subito da lui, un letto con cambio lenzuola per 5000 lire al mese (lo stipendio medio degli operai era di 120 000 lire, con 245 lire si poteva comprare 1 chilo di zucchero, la pasta 280 lire, un chilo di carne di manzo 2.100 lire).

La macchina-nave si trasforma così in una zattera per chi dal Sud si trasferisce nel mare di strade e palazzi del nord.

Ma i naufraghi protestano, si ribellano. Disperati sì, ma con una dignità; combattono, è l’unica cosa che possono fare. Gli anni 60′ e i primi del 70′ sono anni di forti proteste operaie e studentesche. Torino nel settembre del 69′ diventa un luogo di scioperi quasi quotidiani.  Sul muro della facciata compare a grossi caratteri segnati con vernice indelebile la scritta “no ai dormitori caserme, vogliamo mense e docce. Non siamo venuti dal sud per vivere come bestie”.

È una polveriera. Cartelli che promuovono eventi culturali come l’università del popolo vengono fatti a pezzi e utilizzati per comporre frasi offensive nei confronti dei promotori. Proteste che infiammano gli abitanti del quartiere con il solo cancello a dividere le due correnti di pensiero.

Pollaro incalzato dal giornalista si rammarica e ammette che la sua aspirazione era quella di creare un punto di incontro per tutto il quartiere con sale di riunione e corsi para-universitari così interessanti da generare code che giungano fino in strada. Un’idea affascinante che si scontra con la realtà dei fatti. Avvengono disordini sia dentro che fuori i cancelli della casa ed il prete è talmente sconfortato che si presenta dal questore: << sono un albergatore fuori legge, i miei inquilini turbano l’ordine pubblico, mi metta in prigione>> ma il questore rifiuta. È impossibile chiudere un esercizio se ufficialmente non è mai esistito (era stato abilitato per emergenza) e lo invita a sospendere le accettazioni e di mettersi in regola.

Quella stessa sera tornando a casa si ritrova nell’androne un uomo di cinquant’anni, Nunzio, di Napoli che ha lasciato a casa sette figli, una moglie ed una serie di fallimenti. Chiede asilo. Pollarolo dimentica la promessa. Accoglie l’uomo e va avanti nella sua missione

<< Offro loro un servizio a bassissimo costo per i primi tempi, fino a quando non trovano lavoro ed una sistemazione nuova. Glielo offro scomodo, è vero, ma lo faccio apposta, proprio perché lo considerino solo un posto di passaggio e se ne vadano al più presto in uno migliore per essere sostituiti da altri >>. 

In via Foligno però la maggior parte degli ospiti non accetta questa idea. << Funzionano solo una dozzina di docce per piano e a pagamento, 50 lire. Ci è stata promessa una lavanderia a gettone: la stiamo ancora aspettando. Il bucato lo dobbiamo fare con l’acqua gelata perché quella calda costa>> dice Livio 23 anni di Lecce. 

<< Il disagio più grave – incalzano Giuseppe Deluba, 21 anni di Lecce e Vito Costa 37 anni, siciliano, tre figli – è la mancanza di una mensa>> 

Altri si aggiungono, si accalcano appena notano il giornalista. Si crea una piccola folla, parlano, raccontano, protestano. Cercano qualcuno che gli ascolti, che dia risonanza alle loro condizioni di vita. Condizioni che il resto della città sembra non voler sentire. 

Prende parola Enrico Rossi, 42 anni, scapolo, si è appena licenziato. << Torino e la fabbrica non fanno per me, torno a casa a vivere di niente, ma a respirare la mia aria >>. Sono tanti gli uomini e i ragazzi come lui che non reggono la solitudine, l’assenza dell’aria di casa che gli soffoca in ritmi di lavoro massacranti e paghe esigue.

Quando tornano ad aspettarli non c’è nessuno solo dei letti vuoti e l’unico sollievo è dato dalle lettere. 

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È così sui giornali non si ha più notizia di casa Ozanam fino al 29 dicembre del 1984.

Sono trascorsi quattordici lunghi anni. Al governo c’è il primo esecutivo di Craxi, personaggio politico che tanto farà discutere l’opinione pubblica. Al festival di Sanremo vincono Albano e Romina Power con il brano Ci sarà. In un edizione del Festival segnata da una clamorosa protesta degli operai dell’Italsider di Genova, che si radunarono in massa davanti al teatro Ariston per manifestare contro un vasto piano di licenziamenti previsto dall’azienda e chiedendo al contempo il blocco del Festival.

L’italia è cambiata. Il settore industriale si è rinnovato e il numero di lavoratori è in eccesso; una struttura come l’ex fonderia in una società improntata sul dare e avere non ha più motivo di esistere. Così una fetta di Torino e della sua storia di città operaia è destinata a scomparire e con essa le partite di scopa organizzate nelle camerate da quattro, le lunghe ed appassionate discussioni politiche e i racconti sulla terra di origine. Il titolo è netto, lapidario: “la casa nell’ex fonderia chiude dopo 12 anni”. Tuttavia non è semplice come sembra infatti al suo interno abitano ancora 120 persone tra cui emigrati, pensionati, un insegnante, una ventina di stranieri, studenti e lavoratori. Le tensioni con il quartiere si sono estinte. Anzi, si è creato un legame, una saldatura fatta di amicizie e legami profondi che non possono e non vogliono essere cancellate.

Il comune fa la voce grossa, per ristrutturare la casa servirebbero 500 milioni di lire, uno sproposito, e mantenerla costa troppo. Perché diventi indipendente finanziariamente dovrebbe viaggiare a pieno regime ospitando 180 persone mentre ne risultano soltanto 120. È un numero che non basta nonostante l’affitto non sia più irrisorio come negli anni 70. Il prezzo è aumentato in proporzione al costo della vita, adesso un letto in una camera da quattro costa 75 mila lire mentre una singola 120 mila lire (lo stipendio medio di un operaio era di circa di lire 350.000, un chilo di pane 850 lire, un litro di latte 480 lire, pasta 725 lire al chilo, un caffè 250 lire).

Gli ospiti non si fanno attendere nella replica. Affermano che è stata la stessa amministrazione a bloccare le ammissioni su invito del comune. << Hanno chiuso anche la mensa. La loro politica è spingerci ad andarcene ma la maggior parte di noi non è in grado di affrontare la città ed i suoi problemi. >> un bidello aggiunge << Guadagno 800 mila lire al mese, giù a Marina di Camerota ho cinque figli, di cui tre disoccupati. Ho lavorato 12 anni in Germania. Da 6 sono qui a Torino. Sono il primo che vorrei tornare a casa dalla mia famiglia. Ma se mi sbattono fuori di qui dove vado a dormire? Come potrò vivere in una pensione dove ci si può fermare soltanto qualche ora? >>.

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L’articolo si conclude con una domanda tanto sacrosanta quanto suggestiva.

Che fine farà casa Ozanam? Centro sociale, area verde, o monumento-simbolo di una società che cambia?

Trascorre un altro anno, e ancora non si ha una risposta. È il 4 ottobre del 1985 e la casa albergo ancora non è stata chiusa. Un nuovo piccolo articolo racconta di come tra una settimana i 50 ospiti di via Foligno saranno sfrattati. Nonostante la politica abbia cercato di indurli ad andarsene il numero si è stabilizzato sulla cinquantina, senza più scendere: segno che Torino non offre alternative abitative compatibili con il salario operaio. Un’ospite commenta amaro << A questa città ho dato più di vent’anni di impegno e di lavoro. Come molti altri qui dentro. Non vogliamo elemosine da nessuno: solo una casa, ad un giusto prezzo. Ma Torino risponde con il silenzio >>. Lo stabile è simbolicamente occupato e gli ospiti sono decisi a barricarsi dentro se necessario. Torino risponderà con la forza?

È il 14 dicembre 1985. Casa Ozanam chiude, sta per chiudere, chiuderà? La lotta si trasforma in una battaglia legale in piena regola. La cooperativa che gestisce lo stabile ha scelto come rappresentante l’avvocato Gazzola che chiede a gran voce il rilascio dei locali, con provvedimento d’urgenza in quanto la cattiva salute dell’edificio potrebbe comportare gravi responsabilità alla cooperativa in caso di incidenti. Gli ospiti invece si affidano all’avvocato Bascone che invita il giudice a fare un sopralluogo per verificare lo stato dello stabile, respinge l’accusa di occupazione illegittima perché ritiene i suoi assistiti come coinquilini da sfrattare e non come abusivi. Ma per poter sfrattare occorre un titolo (che manca). Lo stabile si guadagna un altro anno di respiro.

Questa è l’ultima notizia che giunge su casa Ozanam ma come è andata a finire lo sappiamo. Una parte è stata utilizzata come dormitorio per senzatetto mentre altri spazi sono stati affittati ad associazioni ed enti culturali. Non è stato fatto nessun intervento conservativo fino ai nostri anni. Si è lasciato andare, consumato dal tempo. Degradato, ha mostrato i mattoni scoperti dal cemento e muri svuotati da voci e grida esultanti di << SCOPA!! >>. 

Si è lasciato che morisse a tal punto che nel 1998 l’ordine degli architetti di Torino decide di porvi una targa commemorativa dichiarandolo: monumento significativo dell’architettura italiana perché coniuga idee e funzionalità, arte e bisogni. Ma questo gesto nasconde un’esigenza ben più profonda e specifica. Evitare che sparisca e cancelli le sue storie. 

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Adesso ci siamo noi. Con Beeozanam abbiamo ristrutturato il locale, lo abbiamo abbellito con opere di street art. Abbiamo costruito, insieme ad Ortialti, un giardino pensile con l’apiario ed un orto sul tetto del ristorante. Inconsapevolmente ci siamo resi conto di voler realizzare il sogno di don Pollarolo e di rispondere al giornalista che si chiedeva se casa Ozanam sarebbe diventato il monumento della società che cambia. Vogliamo che si avverino entrambe le visioni, desideriamo che questo luogo diventi sì un monumento della società che è in grado di ricordare e raccontare quelle che sono le storie passate, le battaglie, le vittorie, i contrasti, le amicizie. Questo sarà il centro di incontro per il quartiere, il promotore di eventi culturali che spingeranno le persone ad essere curiose. Chiunque busserà, qui verrà aiutato, integrato come è successo già in passato. Desideriamo la fila fino alla strada