Sapori del Perù, Leticia e le patate con la salsa huancaina

Articolo scritto per il progetto cucine del Borgo da Alessandro Salvatico e Caterina Pira.

Vediamo la storia della ricetta di Leticia, ovvero le papas a la huancaìna.

“Abitava in via Viviana”, appunta sul taccuino uno di noi, che non essendo di Torino fa affidamento unicamente su ciò che sente, mentre la nostra protagonista parla. “Sarà via Bibiana!”, corregge un autoctono.

In effetti, la graziosa assonanza che nella lingua spagnola avvicina e a volte persino scambia la pronuncia delle lettere “b” e “v” (gli studiosi di fonologia la chiamano tecnicamente betacismo) è l’unica, piccola spia rimasta in un italiano perfetto, a segnalarci che la persona che ci sta affascinando con il suo racconto non è nata e cresciuta in Italia.

Leticia infatti ha lasciato il Perù, la città di Ica e lo sguardo sull’Oceano Pacifico nel 1994, per volare a Torino dove la aspettavano alcune zie e cugine.

La prima della famiglia ad aver fatto questo enorme passo si era beccata un’italica fregatura: le avevano detto di un posto di lavoro come infermiera, lei ha pagato ed è arrivata sotto la Mole, solo per ritrovarsi a dormire su una panchina.

Poi una suora l’ha aiutata e si è costruita la sua vita.

La chiesa è la barra diritta che sempre Leticia ha seguito: dalle religiose del “Madre Mazzarello” in corso Racconigi che l’hanno accolta quando, diciannovenne, è sbarcata a Torino,  alle messe in spagnolo che sono il cuore dei ritrovi della comunità peruviana, alla Chiesa di Nostra Signora della Salute.

Proprio qui Leticia si è sposata con il marito italiano nel 2007, venendo a mettere radici in Borgo Vittoria. Ma prima, c’è stata Susa.

papas a la huancaìna, Perù
Foto di Joe Green su Unsplash

“Ero arrivata da dieci giorni, quando una suora mi ha proposto di andarci, per lavorare come assistente a una coppia di anziani.

L’italiano lo sapevo pochissimo, ma mi son detta: proviamoci. Sono andata là, in mezzo alla Valle, e dopo tre giorni la figlia dei due signori ha visto che ero in gamba ed è andata via tranquilla.

A Natale mi fecero un regalo dicendomi che mi avrebbero assunta, anche se io non capivo la parola “assunta”! Alla fine sono rimasta con loro per tredici anni”.

Finché, a una cena di compleanno di un famigliare, ha conosciuto l’uomo che sarebbe diventato suo marito.

Leticia ha una dolcezza nella voce e nel sorriso, uno sguardo aperto e accogliente, che fanno sentire a proprio agio chi ha la fortuna di ascoltarla.

Quando cucina per amici italiani, spesso prepara proprio il piatto che ci mostra oggi: le papas a la huancaìna, le patate con la salsa huancaina.

Il nome deriva dalla zona andina di Huancayo, di cui la ricetta è originaria.

Il Sudamerica è una terra di patate, che noi abbiamo importato da laggiù dopo i viaggi di Colombo e in Perù ne crescono qualcosa come 3000 varietà diverse.

La polpa di quelle che Leticia usa oggi sembra più gialla, il colore del sole in questo piatto è soverchiante: alle papas si somma la presenza dell’aji amarillo, il peperoncino peruviano che fu base della cultura Inca, piccante e dal caratteristico colore giallo-arancione.

“Bisogna lavarlo molto bene con un po’ di acqua e sale,” spiega Leticia, “a volte è davvero molto forte e siccome il risultato dev’essere una crema fresca e leggera che piaccia a tutti, è meglio trattarlo a lungo!”.

papas a la huancaìna

“La ricetta delle papas a la huancaìna piace a tutti ed è semplicissima da fare”: così Leticia sintetizza le motivazioni che la hanno spinta a sceglierla. Cosa chiedere di meglio?

“Questo è un piatto peruviano che posso fare abbastanza spesso, uno dei pochi”, dice Leticia.

“La cucina del mio paese richiede tempo e io durante la settimana, fra lavoro e famiglia, ne ho poco. Per questo cucino più italiano”.

A Susa ha imparato i rudimenti dei piatti nostrani e ora sforna parmigiane e lasagne come niente fosse.

Ma ci sono voluti degli anni perché si abituasse e riuscisse a mangiare prelibatezze come gli agnolotti, le lasagne stesse e soprattutto il risotto.

Il risotto era la nemesi, per una donna latinoamericana: là, il riso viene concepito in un altro modo.

È asciutto: “I chicchi nel piatto si devono contare”, sono solite ripetere le cuoche peruviane.

Per questo, per molti anni Leticia non è riuscita a farsi piacere quell’onda mantecata che apprezziamo qui.

Poi c’è riuscita e ormai a casa cucina più italiano che peruviano, o entrambi: a volte, con la huancaìna condisce gli spaghetti, che in Perù si chiamano “tajarines”, residuo linguistico piemontese di quando l’emigrazione seguiva i percorsi odierni, ma all’incontrario.

Gli ingredienti necessari per la salsa si trovano.

Anche l’esotico aji amarillo ormai non è difficile da reperire e c’è chi riesce persino a coltivarlo: “A una mia amica cresce bello forte e lei abita a Bussoleno!”, sorride.

Quello che è molto lontano dai piatti della sua infanzia sono i modi e gli strumenti per prepararli.

“Da dove vengo io,” spiega, “la corrente elettrica era un lusso, c’era poco, quando c’era.

Quando cucinavi, mica avevi il frullatore, allora si faceva così: si cercava una pietra grande e piatta, il più possibile liscia, quindi un’altra pietra sottile che facesse da mezzaluna.

Si mettevano tutti gli ingredienti sulla pietra piatta e si pestavano e tagliavano con l’altra.

Bisognava avere manualità e destrezza perchè il liquido non si disperdesse da ogni parte, con una mano usare la pietra e con l’altra raccogliere e spostare gli ingredienti verso il centro”.

Strumenti di pietra, realizzati con una perizia elevata ma dal sapore primitivo.

Mentre racconta, Leticia mima i gesti arcani e antichi che descrive: “Il risultato era più rustico e per tanti anni l’ho fatta anche io così, con mia mamma”.

Salsa

I mezzi di preparazione sono diversi, ma la cultura è la stessa, viva e non dimenticata.

Buona parte di quella peruviana ruota intorno alla devozione religiosa.

Chi come Leticia arriva da Ica ha realizzato nella chiesa dei Santi Bernardo e Brigida, in via Pianezza, una copia del Señor de Luren, santo patrono della sua città. Presso San Domenico invece c’è quella del Señor de los Milagros, il santo patrono della capitale Lima, il cui dipinto murale, dipinto da uno schiavo nero,  rimase in piedi in mezzo ai crolli causati da uno spaventoso terremoto, che secoli fa devastò la città.

L’elenco che Leticia fa dei banchetti che le rispettive celebrazioni vedono imbanditi fa venire l’acquolina in bocca: racconta del turròn e del ponche, che sembrano i nostri torrone e cioccolata calda ma hanno consistenze e profumi ben differenti, da accompagnare col lomo blanco, una sorta di pane semidolce glassato.

E poi ancora la causa rellena, il ceviche, l’ocopa,…

A proposito di acquolina in bocca: le papas a la huancaìna sono pronte. Le patate sono disposte a pezzi nei piatti insieme alle uova sode.

Leticia fa quello che tutti stiamo aspettando, ricoprendo tutto abbondantemente di salsa.

Un tripudio di gradazioni gialle riempie gli occhi. Poi riempiamo anche le fauci.

La patata di per sé dà la consistenza, ma il valore aggiunto è tutto nella salsa, che è una vera sorpresa.

Questa crema formidabile è piccante, ma al tempo stesso non lo è affatto.

Le papille avvertono la forza del sapore dell’aji, ma non fanno in tempo a recepire compiutamente l’informazione che vengono stemperate dai latticini.

Forte ma dolce, è la sola sintesi, forse un po’ banale, che sappiamo restituire di questa esperienza gustativa.

ricetta peruviana, papas a la huancaìna

Il piccolo Domenico gironzola intorno alla mamma mentre questa compie a memoria i suoi gesti in cucina.

Il bambino adora le papas a la huancaìna, come pure le lasagne: “Lui è peruviano, torinese e calabrese!”, sorride Leticia. “I bambini di oggi sono un po’ viziati rispetto al cibo, si sa.

Quando ero piccola io il trucco era semplice: non avere alternative! Si mangia questo oppure sempre questo!

Ma io voglio che mio figlio sappia apprezzare tutto, perchè non si sa mai nella vita: io sono una migrante e se gli dovesse succedere, come a me, di andare lontano da casa, bisogna che sia pronto a non trovarsi in difficoltà in contesti diversi”.

A proposito di Calabria, mentre godiamo della bontà delle papas e chiacchieriamo, domandiamo a Leticia se sia possibile un giorno ospitare in cucina il papà di Domenico, per imparare qualche specialità della sua regione.

Leticia si mette a ridere e ci risponde che il marito non sa cucinare, nonostante un timido tentativo di difesa paterna da parte del figlio.

La loro è una doppia storia di migrazione: lei è arrivata a Torino diciannovenne, lui quando aveva vent’anni.

E, ci riferisce Leticia, suo marito le ha parlato spesso della propria esperienza.

Per lui, italiano, l’integrazione è stata ancora più difficile che per lei, arrivata dall’altra parte del mondo.

Il marito le racconta di come fosse considerato da molti un “terrone” da scansare.

Di come non riuscisse a prendere in affitto un alloggio, perché bastava che il proprietario vedesse scritto “Calabria” sul documento d’identità per mandare a monte la trattativa.

Ma oggi, possiamo dire, la tavola di questa famiglia rappresenta un quotidiano superamento di tutto questo.

Mentre con le forchette ripuliamo i nostri piatti a velocità sbalorditiva, chiediamo ai nostri protagonisti se ci sia un qualche ortaggio tipicamente usato nella cucina peruviana che gli piacerebbe piantare fra le coltivazioni che OrtiAlti ha realizzato sopra le nostre teste, sul tetto del ristorante.

Ne nasce un inatteso dibattito fra madre e figlio.

Domenico: “Il mango!

Leticia: “Ma no, il mango è un frutto

Domenico: “L’avocado!

Leticia: “No, è un frutto anche quello! Poi è un albero, e grosso pure, non puoi…

Domenico: “Il platano!
Leticia: “Ma cosa dici, Domenico, il platano non viene nemmeno in Liguria! Fa troppo freddo
Fase di riflessione con annesso scambio di ruoli.

Leticia: “La menta!

Domenico: “No, la menta no

Leticia: “Perché? A me piace, la menta

Domenico: “Ma qui si trova dappertutto, la menta

Leticia: “Hai ragione

Nuova fase di riflessione.

Poi, l’illuminazione: “Lo huacatay!”. Non abbiamo idea di cosa sia, ma annuiamo quasi convintamente.

Ci spiegano poi che si tratta di un’erba difficile da reperire qui, usata anche per preparare una salsa di nome ocopa, la versione “verde” del grande giallo huancaino di quest’oggi.

Leticia e Domenico ci chiedono se ci piacerebbe trovarci di nuovo, in un’altra occasione, per provarla.

Immaginare la nostra risposta è sin troppo semplice.