La storia di Arouna, viaggio nel deserto del Mali

Quella di oggi è la storia di un viaggio in furgone, di un paio d’ore passate in compagnia. 

È un viaggio in una terra lontana calda e umida, riempita di sabbia e foreste. 

È il racconto di una vita, di un’avventura. È una storia che sembra arrivare da un altro mondo. 

È la storia di Arouna.

Accendo la radio, ma esce solo un fastidioso gracchiare. Provo a cambiare stazione. Niente. Non prende neanche radio Maria. Poi all’improvviso una voce. Oh finalmente!

Radio International. Dice lo speaker che però parla in una lingua che non comprendo. Le canzoni sono italiane, le pubblicità dipende, alcune sono in questa lingue altre in italiano. Alzo le spalle. 

Guardo di fianco e vedo che Arouna sorride. Arouna viene dall’Africa, so solo questo. Anzi no, posso dire che è un ragazzo ben piazzato, alto, ma dall’animo gentile. Silenzioso senza dubbio ma d’altronde chi parlerebbe se non venisse ascoltato?!

Provo a concentrarmi ma la tensione per il lavoro aumenta. Così decido di rompere il silenzio e di affondare nella curiosità.  

“Ma tu quanti anni hai?”.

“Diciotto”. Risponde con accento francese.

“Diciotto?! Sembri molto più grande! Quindi sei più piccolo di me?”. Aggiungo di getto, guarda dritto davanti a sé.

“Da dove vengo io l’età non è importante, nessuno segna la data quando nasci”.

“Quindi nemmeno tua madre sa quanti anni hai?”.

“No, nessuno” accentua la risposta accompagnandosi con un gesto delle mani.

“Beh, quindi se trovi una ragazza che ti piace potrebbe avere dieci anni in più e non lo sapresti!”. Arouna ride.

“Eh sì, questo è un problema”.

“Ma quindi non avete documenti?”

“Niente documenti, solo se vai a scuola, altrimenti non servono”.

“Tu ci sei andato?”

“No, io no”.

“E quindi come fai a sapere quanti anni hai?”

“Ah, loro ti misurano e ti dicono hai diciotto anni”. Metodo scientifico…

“e di dove sei?”

“Io?” Si indica il petto. Annuisco. “Sono del Mali”.

Foto di Piccaya

“E da che parte dell’Africa è, sopra, sotto?” La geografia non è il mio forte. Ci ragiona un attimo su.

“Ad ovest, hai presente Marocco, Algeria?”

“Sì! Ma quindi avete il mare?” Chiedo immaginandomi barriere coralline e spiagge bianche.

“No, noi niente mare. Abbiamo il deserto“.

“Ah. Ci sei mai stato?”

“Sì, molte volte ma non è bello, non si respira bene, fa caldo”.

“Immagino”.

“È pericoloso, ci sono serpenti e come si chiamano… ah sì scorpioni”. Annuisco.

“Ma lì da voi com’è la situazione? Ci sono guerre?”

“Sì, c’è la guerra. Una fazione vuole che lo stato diventi musulmano mentre l’altra no”.

“E tu sei musulmano?”

“Sì io sì, ma io sono tranquillo” per un attimo cala il silenzio. Metto la freccia a destra, guardo nello specchietto e giro. Poi con mia grande sorpresa inizia a raccontare. È bastato un attimo, un paio di domande ed ora è un fiume in piena.

“Da noi c’è tanto spazio ma poche persone”.

“Perché?” Domanda stupida.

“Perché c’è il deserto” sorride “abbiamo anche le foreste”. Nella mia testa immagino questi due paesaggi enormi, che si perdono all’orizzonte e confinano l’uno ai piedi dell’altro. “Da noi piove tanto, proprio in questo periodo, di solito ci sono quattro mesi di pioggia, poi arriva il caldo”.

“Ho capito. Ma tu vivevi in città?”

“No, io vivevo in un villaggio con la mia famiglia”.

“Quanti eravate?”

“Più o meno quaranta, lì ognuno ha il suo compito, io lavoravo la terra, mais, patate… Si faceva tutto insieme anche mangiare”. Non posso che visualizzare anche questa scena, quaranta persone sedute per terra che mangiano con le mani da piatti comuni.

“Ho letto in altri racconti che in Africa cucinano solo le donne”. Sorride.

“Si, da noi solo le donne, loro non hanno la libertà che hanno qui. Pensa che al mio villaggio c’è qualcuno che ha quattro mogli”.

“Ah sì? Il problema è mantenerla poi una famiglia così…”.

“Si fa. Loro hanno dieci figli per moglie. Quaranta bambini in tutto”. Spalanco gli occhi.

“Davvero?”

“Sì”.

“E quando stanno per nascere? Immagino non andiate in ospedale”.

“Dipende, chi ha i soldi ci va, altrimenti le donne anziane sanno come fare. Danno dei colpetti sulla schiena”. Simula il gesto dei colpi lasciandosi andare in un sorriso e facendo trasparire negli occhi un ricordo. “Anche mio nonno lo faceva”.

“Lo pagavano?” Domanda veniale. Cerco di riparare. “Era il suo compito?”.

“No, bastava avvisare qualche giorno prima e lui andava. Ora però ha male alle gambe e quindi non riesce più”.

“Ho capito. Ma quindi non usate mai i soldi per mangiare?”

“Quelli li usiamo per comprare vestiti, scarpe…”

“E per bere come fate?”

“Scaviamo un buco”. Sorrido. Anche se non ho capito fino in fondo cosa intenda. “Se no l’andiamo a prendere al fiume”.

“Non ci sono i coccodrilli?”

“Eh sì ci sono”.

“E non avete paura?”

“Sì, certo ma loro sono tranquilli, se li lasci stare non ti attaccano”.

“Mh, non mi fiderei comunque”.

Foto di rylan krupp su Unsplash

“Da noi c’è un detto. Si dice che se non hai peccati il coccodrillo ti lascerà in pace, ma se hai fatto un torto come ad esempio rubare la moglie di qualcuno allora verrai mangiato”.

“E tu ci andavi così sereno a prenderla?!” Ridiamo. “Qualcuno lì da voi è stato attaccato?”

“Sì è successo, era solo, purtroppo nessuno ha potuto aiutarlo, bisogna sempre andare almeno in due”.

“Dev’essere una morte orribile”.

“Già”.

“Ma li mangiate anche?”

“Qualcuno li mangia ma al nostro villaggio no”.

“Anche perché immagino che se li cacci diventano aggressivi”.

“Sì, esatto. Pensa che una volta in un villaggio vicino i coccodrilli erano diventati troppi, stavano diventando pericolosi, così sono andati in città, hanno preso una pistola, e ne hanno uccisi dieci, undici. Hanno mangiato per mesi”.

“E cos’altro mangiate?”

“Abbiamo galline, capre ma mangiamo di tutto, serpenti, topi”.

“So che il serpente assomiglia al pollo come sapore”.

“Sì, più o meno. Ma io ho deciso che non lo mangio più, l’ho già detto alla mia famiglia”.

“Perché?” “Non mi piace molto”.

“Come lo cucinate?”

“Acqua e sale”.

“Ah bollito?”

“Sì”.

“E lì al villaggio le case le avete costruite voi?”

“Sì, noi usiamo la terra e il bambù”.

“E sul pavimento?”

“No niente pavimento, costa troppo”.

“A quindi non mettete nulla?”

“Niente”.

“E come dormite?”

“Prendiamo un sacco e lo riempiamo di erba secca”.

“Ma dormite comunque per terra?”

“Dipende, alcuni si costruiscono una struttura con degli alberi altri dormono per terra. Comunque dopo due anni il materasso diventa comodo…” Altro che memory foam.

“E per andare in bagno?” Mi guarda, divertito.

“Esci e scavi una buca, il giorno dopo vai dall’altra parte”.

“Mi sembra ragionevole”.

“E con l’elettricità invece come fate?” Solo ora mi rendo conto di avergli fatto l’ennesima domanda.

“Abbiamo…” indica sopra. “Come si dice già… I pannelli solari, oppure grandi batterie come quelle di questo furgone. In casa usiamo le torce, niente lampade. Costano troppo”.

“Ho capito. E la televisione la guardate?”

“Molto vecchia. Di solito si mettono dei film in cassetta, abbiamo anche il telefonino”.

“Immagino che internet non ci sia, che non arrivi il segnale”. Aggiungo pensando di aver capito tutto. Ma mi spiazza.

“No c’è ma costa, non se lo possono permettere e poi non gli serve, non se ne fanno nulla”.

“Beh però potreste vedervi”.

“Una volta all’anno loro lo comprano, si paga a forfait”.

“Ah quindi loro pagano un mese e sentono e vedono tutti”.

“Si”.

“Da quanto è che non torni?”

“Quattro anni”.

“Quattro anni che non vedi la tua famiglia quindi”.

“Sì”.

“Ma sei venuto subito qui in Italia?”

“No, io prima sono andato in Algeria”.

“È molto lontana dal Mali?”.

“L’Algeria per noi è una frontiera come per voi la Francia”.

“Ah quindi è vicina”.

“Sì, normalmente il viaggio dura quattro giorni ma noi non abbiamo fatto quella strada”.

“Quanto ci avete impiegato?”

“Una settimana”.

“Ma come vi sposavate?”

“Camion. Eravamo trenta persone”.

“Immagino tu abbia pagato…”

“Sì. Ma ad ogni paese delle persone ci fermavano e ci chiedevano soldi. Trenta euro a persona, ci minacciavano con la pistola, qualcuno aveva anche i kalashnikov. Sai che cosa sono?”

L’immagine questa volta è chiara, vivida, non permette spazio all’immaginazione.

“Purtroppo sì. Quelli fanno paura eh”.

“Sì”. Molto peggio dei coccodrilli.

“Ma tu sapevi che ti avrebbero chiesto altri soldi?”

“Io sì, avevo chiesto a uno che lo aveva già fatto. Lui mi ha detto di darglieli perché altrimenti ti tirano (sparano) con la pistola e ti lasciano nel deserto”.

“Mio Dio”.

Foto di Azzedine Rouichi su Unsplash

“Ma è successo a qualcuno che era in viaggio con te?”

“No. Ci controllavano i vestiti, le tasche, ci spingevano e minacciavano tanto che una volta ho pensato di ribellarmi. Poi ho pensato che non aveva senso, loro avevano le armi io solo le mani”.

“Hai fatto bene. E quindi sei arrivato in Algeria”.

“Sì. Ma per cinque mesi non ho avuto un lavoro, mangiare era difficile. Poi ho trovato come muratore”.

“E lì in Algeria la situazione com’è?”

“C’è casino anche lì. La sera non potevo uscire da solo, avevo paura. Lì ti fermano e ti minacciano con il coltello, si prendono tutto, soldi, portafoglio. Una volta ero andato al mercato per comprare l’acqua e mi hanno fermato. Volevano soldi ma gli ho detto che non ne avevo, li avevo appena spesi”.

“E come hai fatto a mandarli via?”

“Una signora ha chiamato la polizia e sono scappati”.

“Ma chi erano? Persone in difficoltà?”

“Anche, ma in Algeria ci sono anche tanti bambini e ragazzini che non hanno voglia di lavorare”.

“E in Italia invece come sei arrivato?”

“Barca, quelle dove metti l’aria dentro”.

“Un gommone?”

“Tipo”.

“Immagino sia stata lunga”.

“Faceva freddo. Sono arrivato a Taranto e pioveva, ricordo che faceva freddissimo mi hanno dato una maglia, scarpe e da mangiare”.

“Quanto sei stato”.

“A Taranto? Due giorni poi mi hanno portato a Torino in bus”.

“Dove fa ancora più freddo…”

“Sì è vero, anche da noi fa freddo ma non così. Poi ci hanno portato a Settimo ed Alpignano”.

“Quindi hai visto la neve per la prima volta…”

“Sì, bella, anche se l’avevo già vista in qualche vecchio film”. Silenzio. “Tu da quanto hai la patente?” Finalmente è lui a chiedermi qualcosa, sembra particolarmente affascinato dalla guida.

“Eh saranno nove anni”. Fa un verso.

“Tu vorresti prenderla?”

“Sì ma prima devo cambiare tutti i documenti”.

“A Mali non guidavi quindi?”

“Quasi mai, se ti beccano senza ti fai sei mesi di galera”.

“Cosa?!” Esclamo. “Un tantino severi”.

“Ma da noi ci sono poche strade. In città ad esempio ce n’è una principale ma poi tutte le altre sono terra. E poi è tutta storta, non c’è organizzazione. Non è come qui”. Prima volta nella mia vita che sento qualcuno elogiare l’organizzazione italiana.

“Te l’aspettavi così l’Italia?”

“Sì”.

“Ma tu non avevi visto nulla prima? Neanche una foto?”

“No, niente”.

“Quindi per te è stato tutto nuovo”.

“Sì. Tutto nuovo”. Alla radio si parla di calcio, domani c’è il derby e per Torino sarà una giornata particolarmente sentita.

“E il calcio da voi è importante?”

“Sì molto, ma non siamo forti, non abbiamo mai vinto la Coppa d’Africa. E non abbiamo mai partecipato ai mondiali, quest’anno sarà la prima volta”.

“Ah! Non lo sapevo! Speriamo andiate bene allora”.

“Speriamo”.

Arouna-Mali

Parcheggio, tiro il freno a mano e scendo con la testa che naviga in tempesta, sommersa dai racconti appena sentiti. Una nube lontana tuona e io capisco all’istante che questa è solamente una piccola, minuscola parte di ciò che ha passato.

Ci togliamo solo qualche anno ma lui è come se avesse vissuto già 100 vite e non ne ha abbastanza, lotta con le unghie e con i denti per ottenere un lavoro, per trovare finalmente il suo posto dopo un lungo pellegrinaggio. Lo ammiro perché sorride. Un sorriso che lava via e cancella ogni orrore. 

È un sorriso che disarma, alleggerisce. 

Il catering è vicino al Po e quando lo vedo quasi mi viene un colpo. Speriamo non ci sia nessun coccodrillo nei dintorni.